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Chi
sono

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Dal 1979, nel mio sorriso passa l'aria.

L’anno non è sicuro, l'aria sì.
Nessuno a casa mi ha mai imposto una correzione, anche quando sarebbe bastato un semplice apparecchio anni ottanta per essere a posto. Per essere come tutti.

Che tra i miei denti passasse la luce, a casa mia, è stato sempre un fatto indiscutibile e gioioso, come le mie fissazioni per la cartoleria, per i pattini e per i registratori di cassa dei negozi.

Ringrazio mio Padre, mia Madre e mio Fratello di non averci fatto mai caso a quello spazio, e così di avermi lasciato la porta aperta verso il mondo.

Ora non ho più sei anni e il mio sorriso è sempre qui: incerto, infantile, difettoso.

Sono grata all'incoscienza di chi l’ha lasciato crescere per quello che è ora, perché è la cosa più bella che ho.

Questo sorriso e l’aria che ha conosciuto mi hanno permesso di coltivare le imperfezioni e le cose minime, che sono il cuore di questo progetto e della mia vita.

Tutto il resto, è merito mio.

Sono nata nel 1973.

Non c'erano ecografie a quel tempo, dunque il mio arrivo è stata una sorpresa per tutti.

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Per mio Fratello di più: lui voleva un cavallo. 

 

Dopo qualche anno complicato, quando pensavano tutti che sarei morta oppure sarei cresciuta a fatica, con mamma che per farmi il pranzo e la cena comprava quarti di carne di prima scelta per due cucchiaini di estratto e cuoceva carote e patate dalla mattina, coi tacchi per casa, spremendo mele e limoni per assicurarmi le vitamine…

...un giorno ho mangiato l'acquacotta con mio Zio e mi sono svegliata con la ciccia e tutti sono stati felici.

  

Ho passato anni incredibili sul terrazzo con le mattonelle blu, a pattinare, a fare il bagno nel canotto con mio Fratello, a spostare le piantine di fragole di Papà, a spiaccicare con le dita le formiche rosse, ad apparecchiare la tavola, con la gioia delle rondini in cielo per l’estate che arrivava e Mamma che diceva: «Eva, stasera mangiamo fuori!».

 

I pomeriggi li passavo a giocare nel giardino di scuola, dove avevo un negozio avviato di ghiande e mimose. Senza scontrino, in nero, sotto la quercia.

 

Per Natale con mio Fratello facevamo la lista dei regali, con il catalogo del negozio di giocattoli e io avrei tanto voluto un registratore di cassa con scontrino...

Ma non è mai arrivato. Così mi sono adattata alla casa di Barbie a tre piani, che però mi crollava sempre dietro la porta e io dovevo rimetterla a posto... a sei anni già risolvevo problemi.

 

Ma sono stata una bambina fortunata: a casa trovavo sempre la mia Mamma profumata e bionda in cucina e Papà che tornava sempre in tempo per noi con la cravatta da lasciare sulla sedia e un fratello accanto a me, sempre.

Non sono stata mai sola, nel bene e nel male.

 

A volte il pomeriggio, dopo i compiti, andavo al supermercato dalla mia amica cassiera del reparto giocattoli, lei fortunata, che aveva il registratore di cassa con lo scontrino... e stavo lì fino alla fine, perché amavo tutti quei gesti che si ripetevano, i conti della chiusura...

 

Le mie giornate erano sempre comunque scandite dai negozi: la lista della spesa, la spesa, il pranzo, la cena…

Avevo i miei negozi del cuore fin da piccola e da sempre ho visto, dentro ogni negozio, le persone prima delle cose.

Questo lo devo a mia Madre, perché il rito della spesa insieme è vecchio quanto me… quanto noi assieme.

 

Prima nel seggiolino del carrello, poi dietro a lei per mano, poi accanto a lei senza mano, poi davanti a lei di nuovo per mano.

 

Poi da sola.

 

La magia dei negozi mi è restata nel cuore come un’impronta.

Anche quando sono arrivata nella nuova casa ho subito fatto amicizia con la signora del «Vini e olii» qui sotto… cucinava anche le uova lesse… e poi c’era la merceria dove compravo la lana per le sciarpette di Natale. 

 

Poi la scuola con la mia sorella del cuore, il latino e il greco, i pomeriggi a studiare l’aoristo, i maglioni fatti a mano, l’università, l’archeologia, il tedesco, il lavoro per caso e poi per passione, l’amore della mia vita, la vita che cambia per tutti, la fortuna di non aver scordato nulla.

 

La fortuna di essere qui, tra quello che amo.

Ricordi e parole.

Intervista ad Eva Romoli

«La Repubblica», 11 marzo 2021

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Le insegne dei negozi di Roma catturati da Eva:
«Perché non vadano persi, come i mestieri»

di Katia Riccardi

 

Se Roma fosse ancora giovane, assomiglierebbe a Eva. I capelli lunghissimi di quelli che non si riesce a contare, la risata all’improvviso come le tapparelle dei palazzi di Roma quando si alzano di colpo, facendo entrare mulinelli di luce e polvere. Eva ha studiato Archeologia e lavora all’Istituto austriaco; di cognome fa Romoli e a Roma è nata e cresciuta. Per la sua città mette da parte cose sciupate ma da non buttare via. Niente di storico. Eva conserva solo le insegne di negozi.​​​

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Da cinque anni fotografa le scritte di mercerie, pelletterie, vini e olii, rosticcerie, pizzicherie, cartolerie e qualunque cosa le ricordi un momento o la ispiri. Su Facebook, l’album «Lettere antiche» ora ne contiene quasi settecento. Alcuni negozi resistono, molti non ce l’hanno fatta a sopravvivere al lockdown. Basta scorrere le immagini per viaggiare nel tempo di una volta e di una città più semplice, Roma, senza un trucco troppo carico.

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Come ha cominciato, ricorda la prima insegna? «Era un febbraio del 2016, ne ho raccolte 658 fino a oggi. Ho cominciato per gioco e forse anche per tigna. Un pomeriggio, mentre aspettavo per entrare al cinema, mi sono fermata davanti a una tavola calda. Ho guardato l’insegna rossa e il pensiero è andato subito a quelle mattine prima di andare a scuola, quando compravamo mille lire di pizza bianca per la merenda. La prima è stata proprio quella della tavola calda. Poi le altre. Senza frenesia. Mi sono venute incontro loro e un grande aiuto è arrivato anche da mio fratello, gli amici, quelli della vita e quelli di Facebook».​​​​​

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Eva racconta, è giovane, lo stesso, il passato sembra lontano. Troppo per una generazione che ha cominciato senza pesi ed è finita con touchscreen parlanti tra le mani. Ascoltare una quarantenne mentre parla di quei «venerdì sera con mio padre, da piccola, a comprare in rosticceria i supplì caldi che ti passavano sul bancone con la velina, così leggera che si ungevano le mani al primo morso», è la speranza che qualcosa possa salvarsi ancora e lasciare ditate a sfocare schermi di telefoni, per una buona volta.​​

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Eva e «la merceria dove andavo a comprare i bottoni e i rocchetti di filo per mia madre e mi perdevo davanti alle pareti coi cassettini di legno fino al soffitto. La pasta all’uovo e le mattine presto del 24 dicembre, in fila a prendere i tortellini».

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Da dove nasce l’esigenza di fermare insegne in uno scatto?


Ho sentito che se avessero chiuso negozi del genere, se non ci fossi più capitata davanti, si sarebbero spezzate anche le occasioni di questi ricordi. E non lo volevo. Tutte queste attività quasi sempre hanno insegne antiche; scritte con caratteri semplici, in corsivo o in stampatello, che portano la loro antichità nella forma, ma che sono anche un messaggio di persone che non ci sono più, di vecchi mestieri. Spariti, come le parole per definirli».

 

Quali?


Vini e olii, salsamenteria, coloreria, vapoforno, foderami, pantofoleria, mesticheria, latteria, abbacchi e polli solo per dirne alcune. Ho trovato così il nome dell’album, «Lettere antiche». Fotografando riuscivo a tornare in quel mondo lì.

 

Alcune sono anche più vecchie di lei, a cosa le collega?
 

Ad un rapporto col quotidiano che vorrei non andasse perso, che cerco di non perdere nella mia vita. Come andare a piedi per il mio quartiere, passare davanti a un negozio e sentirmi salutare per nome. Dietro un’insegna c’è sempre un’attività, ma soprattutto c’è una storia, ci sono le persone e le vite di tutti quelli che lì sono passati, hanno comprato, hanno lasciato i loro soldi e i pezzi delle loro vite. Come me.

 

Scritte senza clamore con l’unico scopo di voler essere utili. Roma perde pezzi di semplicità?


E spazi perduti. Come «Vini e oli». Ce n’era uno a via degli Scipioni, gestito da una coppia di fratelli. Erano sempre lì. Non avevano quasi orari di apertura e il loro negozio era come una famiglia. Dentro s’incontravano sempre le stesse persone, ognuna al proprio orario e con la solita piccola spesa quotidiana, la parola, il confronto, la risata, il tempo in comune, che per alcuni era l’unico da condividere. I fratelli scrivevano gli avvisi e i prezzi a mano, con la calligrafia di chi lo fa poco, usavano i pennarelli a punta grossa, per dare importanza alle parole. Erano sempre dietro al bancone, con il vino da spillare in quei vecchi frigoriferi color crema di legno e vetro, che non ci sono più. Era uno di quei posti senza tempo, come loro. Quando entravi venivi catapultato nel passato, ma con fuori il tuo tempo ad aspettarti ed era sempre bello attraversare quella soglia. Aver fatto la foto a quell’insegna, ora è la porta con cui torno lì.

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Amici hanno mandato foto da altre città?


Su Facebook la mia costanza nel cercare le insegne è diventata, quasi da subito, un gioco di affetto reciproco e piano piano i miei amici hanno cominciato a mandarmi insegne da ogni parte di Roma, dell’Italia e anche dall’estero. È stato un modo per ricevere un pensiero ed è forse, l’aspetto più inaspettato e bello di questa avventura fotografica e in parte anche della mia esperienza sui social.

 

Che farà di queste foto? C’è chi chiede una mostra.


Una mostra non penso, mi piacerebbe sceglierne alcune e scrivere, per ogni insegna, un racconto ispirato all’attività che c’è dietro, alla vita quotidiana, lasciando spazio ai miei ricordi e alla mia fantasia. Sarebbe anche un modo per continuare a dare vita alle attività che hanno chiuso.

Tra i moltissimi negozi che non hanno retto ai lockdown, ci sono anche i suoi?
 

Adesso comincio a vedere che alcuni hanno chiuso. Di un’insegna, in questi giorni, mi piange il cuore più delle altre: il cinema «Azzurro Scipioni». Quanta vita, amore e cultura in quelle sale. Per me quel cinema è come Villa Borghese. Andrebbe tenuto aperto a prescindere dall’utile economico. Se a Villa Borghese ci va una persona o 100, che differenza fa? A nessuno verrebbe in mente di chiuderla. Ecco, quel cinema fa parte del mio paesaggio dell’anima. Va tenuto aperto e basta. Chi passa deve avere la possibilità di entrare. Proprio come chi, passeggiando per la città, decide di andare al parco e si siede a godersi il paesaggio.

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​​​​​​​​​​Trova bellezza nella semplicità, com’è la sua Roma chiusa per virus?

 

Cercare di trovare il bello nelle cose più semplici di tutti i giorni è la mia forma di sopravvivenza personale. In questi mesi di reclusione forzata e di libertà limitata è stato un punto di forza avere i miei posti speciali, le persone dalle quali tornare. La mia Roma chiusa per il virus è stata come la Magnani, quando, dopo essersi fermata per strada perché le facevano male i piedi, si rialza e cammina fiera, in mezzo alla polvere, da sola, col vestito mezzo sgualcito e impolverato, ma aggiustandosi i capelli e sorridendo, come per dire a tutti «Eccome, sto a torna’!».

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Tre interviste e un racconto

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Intervista ad Eva Romoli

«RomaToday», 15 marzo 2021

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Le insegne storiche di Roma fotografate da Eva:
«Perché certi ricordi non vadano persi»

Intervista a Eva Romoli, che da cinque anni fotografa e conserva
le insegne dei negozi storici della Capitale

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Mentre a causa del Covid tante serrande continuano ad abbassarsi, tante attività commerciali presenti da una vita a Roma sono costrette a chiudere, c’è chi le insegne storiche della Capitale ha pensato di fotografarle – già da qualche anno – per evitare che un giorno, anche quando non ci saranno più, vadano dimenticate.

È l’idea di Eva Romoli nata per gioco cinque anni fa, davanti ad un cinema, mentre aspettava le amiche per entrare. «Ho notato due insegne – racconta a RomaToday – “Tavola calda” e “Orologeria Seiko”, entrambe storiche, e mi sono chiesta “Ma se queste insegne spariscono, sparisce anche l’occasione di riassaporare certi profumi, certi ricordi”».

Così Eva ha iniziato a guardarsi intorno, quando andava a fare la spesa, quando usciva per lavoro o per passeggiare, inizialmente nel suo quartiere, Prati, e ha iniziato a fotografare tutte le insegne storiche che le capitava di vedere e a raccoglierle su Facebook in una cartella. 

Da allora la raccolta si è sempre più arricchita, anche grazie al contributo di amici che incuriositi dall’idea di Eva Romoli si sono uniti a lei, fotografando le insegne storiche della propria zona e inviandogliele. «La fotografia non ha nulla a che vedere con il mio lavoro – ci tiene a sottolineare Eva – le foto non sono perfette, non sono una fotografa e non ho ambizione di diventarlo, il mio obiettivo è quello di conservare qualcosa che un giorno potrebbe essere dimenticato».

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 Ad alcune delle insegne fotografate, poi, Eva è particolarmente legata: «C’è ad esempio l’insegna della trattoria «l’Abruzzese», il cinema «Azzurro Scipioni», la pasta all’uovo dove vado ancora, una serie di cartolerie, la pizza rustica dove passavo a prendere la pizza prima di andare a scuola e tante altre».

Dal 2016 ad oggi Eva Romoli ha raccolto 675 insegne storiche, che raccontano la Capitale dal centro alla periferia. Insegne di forni, pastifici, trattorie, calzolai, librerie, mercerie, pizzerie e altro ancora, tutte raccolte su Facebook: «Facebook mi dava più il senso della raccolta rispetto ad altri social, come Instagram ad esempio», spiega a «RomaToday».

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Intervista ad Eva Romoli

«Condivisione Democratica» n. 2-3, 31marzo 2022 

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La ragazza che sapeva trattenere le cose che sparivano

Storia di una principessa un po’ maga e un po’ fotografa

di Giovanna La Vecchia

 

Somiglia in tutto ad una bambina antica, il suo aspetto fisico, i suoi lunghi capelli che ti viene voglia di sistemare con un enorme fiocco dal colore sgargiante, il tono della sua voce, la sua lentezza quasi avesse a disposizione l’eternità, la sua ingenuità, le sue lettere, i suoi pensieri e le sue parole scritte come in un diario segreto, quello di un tempo che aveva lucchetto e chiave. Il suo desiderio di fermare il tempo traspare in ogni cosa che fa, che pensa, che dice, appare come un volersi rapportare ad uno dei momenti più felici e sereni della sua vita. Eppure è una donna, una professionista, forte, coraggiosa, profonda. Ma quell’odore di biscotto appena sfornato che racconta una storia come fosse una favola, se lo porta addosso come un secondo abito. 

Eva Romoli nel 2016 inizia un’attività molto curiosa, fotografa insegne antiche di ogni tipo di attività commerciale. Ovviamente inizia da Roma, sua città d’origine, ma poi la sua iniziativa interessa ogni parte del mondo e coinvolge sempre più persone grazie alla pubblicazione su Facebook. La storia coinvolge e raggruppa sempre più persone, amici reali e virtuali, che la sostengono, le inviano materiale, condividono e commentano. Eva diventa popolare, «La Repubblica» le dedica un ampio spazio sul quotidiano, la curiosità cresce e questo suo piccolo mondo antico inizia a diventare sempre più grande e popolato. 

L’abbiamo incontrata per i lettori di «Condivisione Democratica». 

 

 

 

 

 

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​​​​​​Più che una passione la sua appare come una esigenza, un bisogno, una chiara volontà di fermare il passato, i ricordi, le emozioni di un tempo in cui la semplicità e la felicità erano più a portata di mano, come se non si dovesse poi faticare molto per ottenerle. Quando si è resa conto di quanto fosse necessario e fondamentale utilizzare la fotografia per ristabilire un legame così forte ed irrinunciabile? 

 

Era febbraio 2016. La mia idea originaria, quel pomeriggio, era di fotografare tutti i posti dove ero stata felice con l’uomo di cui ero innamorata. Volevo regalargli una foto per ogni posto in cui eravamo stati insieme. Poi, guardando portoni e vetrine, mentre aspettavo per entrare al cinema, in quei momenti che sembrano momenti persi camminando sul marciapiede, mi sono caduti gli occhi sull’insegna rossa della tavola calda. Era quell’ora del pomeriggio che ancora non è buio e che basta già per rendere le insegne ancora più luminose. 

Ho usato la fotografia che conoscevo, quella col cellulare, perché era l’unico strumento per creare la mia scatola dei ricordi; per fermare i ricordi nel tempo; per dare a quei posti, a quei profumi, a quei mestieri e storie, una vita senza fine. 

 

Cosa accade ogni volta che fotografa una vecchia insegna? 

 

Provo la grande soddisfazione di esserci riuscita, di aver fatto in tempo, di essermi spinta per caso fino a lì. In realtà non sono mai andata apposta a cercare insegne per le strade. Sono le insegne che si sono lasciate trovare durante le mie passeggiate e i miei spostamenti a piedi e poi tantissime le devo ai miei amici, di vita e dei social. Alcuni conosciuti virtualmente solo grazie a questa avventura e che non smettono ancora di farmi costantemente bellissime sorprese. 

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​Una raccolta di oltre mille insegne in sei anni, la prima risale al 2016. Sono raccolte in tutto il mondo?

 

Sono arrivata a 1094 e sì, vengono da tutto il mondo. Ho iniziato dal mio quartiere e mi sono allargata a tutto il mondo, alle piccole isole greche, a quasi tutti i posti di vacanza di amici e di mio fratello. Le insegne sono diventate quello che erano in passato, le cartoline (anche di queste ne ho una bella collezione, una scatola di tutte quelle ricevute): ogni insegna diventa un pensiero e un saluto per me. 

 

Qual è stata l’insegna più significativa e per quale motivo? 

 

Quasi impossibile sceglierne una…. Le mie preferite sono foderami, passamanerie, negozi di bottoni, cartolerie, vecchie salumerie; se proprio devo scegliere, d’istinto il pensiero va al Vini e olii vicino casa, che poi ha chiuso dopo poco tempo e sono stata felice di aver fermato quel ricordo, prima che venisse cancellato dalla strada.   

 

Le insegne vanno di pari passo con mestieri ormai quasi del tutto scomparsi o con definizioni di mestieri che sembrano non appartenere più al vocabolario comune e quotidiano. Salsamenteria, coloreria, foderami, mesticheria. Parole che per molti rappresentano un vissuto sano e pieno. Il linguaggio dei giovani oggi è più aggressivo e diretto. Secondo lei il mestiere del «narratore» di vita passata può aiutare i ragazzi ad un confronto più maturo anche con se stessi? 

 

Sarebbe un aspetto sul quale riflettere, ma che non nasce con la mia collezione. La mia raccolta ha una lettura molto più personale e non voglio veicolare nessun insegnamento. Mi basterebbe che la foto di un’insegna di foderami sollevasse la curiosità di chi ora o fra qualche anno non sa e non saprà nemmeno che anni fa si compravano le fodere e i bottoni, per fare e per riparare i vestiti. Mi piacerebbe non andassero perse quelle attività e quelle atmosfere, quel modo di vendere e comprare senza fretta. Per esempio il piccolo mondo che ruota intorno alle pizzicherie, ai commessi con le cravatte dai nodi grossi, alle persone che entrano, si riconoscono e si salutano. 

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Quanto è importante la volontà di condivisione in lei e come pensa di attivarla nel modo più ampio possibile? 

 

La condivisione è l’anima di questo percorso. Per questo ho scelto di pubblicare tutte le foto in un album pubblico su Facebook: per renderlo visibile e fruibile da tutti quelli che ne abbiano curiosità e per fa partecipare più persone possibili. Fossi stata da sola, questa raccolta non sarebbe diventata quella che è. 

Ah, importante: anima del progetto è che le foto devono essere scattate sul posto, bisogna passarci davanti fisicamente e poi ogni foto deve essere localizzata topograficamente (sempre la città, meglio se con la via). Unica eccezione l’ho fatta io fotografando, all’interno di due ristoranti e di un negozio di sanitaria, le loro foto delle vecchie insegne, conservate in quadri appesi al muro, dopo la ristrutturazione dei locali. 

 

I suoi studi di archeologia ed il suo lavoro all’Istituto austriaco sono una parte importante della sua vita. Qual è il suo sogno per il futuro? 

 

I miei studi sono il mio passato e quello che mi ha formata e resa quello che sono, regalandomi lo sguardo che ho sulle cose, sulla storia e sulle parole; il lavoro che faccio da vent’anni mi permette il contatto con le persone e lo amo per questo. Di sogni ne ho sempre tanti. Se devo dirne uno legato a questa esperienza è pubblicare un libro con una scelta di insegne, raccontando la storia vera di quell’attività e scriverne accanto una io, una immaginata da me.

 

Come immaginava il mondo da adulta quando la mattina prima di andare a scuola comprava mille lire di pizza bianca per la merenda? 

 

Per me, il mio mondo futuro di bambina era tutto il mio presente e contava solo che le persone che amavo fossero con me e che non mi mancasse mai il mare d’estate, la lista dei regali di Natale da scrivere con mio fratello, la pizza bianca sotto al banco. Mi immaginavo ballerina e mamma. L’immaginazione non mi è mai mancata. 

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La sua iniziativa ha destato molta curiosità ed interesse, tanto da coinvolgere il quotidiano «La Repubblica» che le ha dedicato ampio spazio. Quando ha iniziato a fotografare le vecchie insegne immaginava ci potesse essere uno sviluppo «produttivo» e costruttivo? 

 

No, non l’ho mai pensato e non lo penso neanche ora. Per me iniziare è stato come mettere ricordi in un cassetto e mai avrei immaginato tutto questo interesse e le proposte che mi sono state fatte. 

 

Sulla sua pagina Facebook ha creato l’album «Lettere antiche» dove pubblica non solo il materiale fotografico ma pensieri, riflessioni, spunti e brani di altri autori. 

 

L’album #lettereantiche su Facebook è dedicato solo alle insegne. L’album per le parole è #parolemie dove scrivo delle mie cose, senza un vero filo logico, se non il mio istinto, per fissare i miei momenti di gioia e quelli tristi. È nato per non lasciare perse nel flusso di Facebook le mie parole. Come vede, l’istinto alla conservazione e alla raccolta sono sempre prioritari per me! 

 

Tra tanto materiale ho molto apprezzato il suo scritto sui bambini, le donne e la guerra. Cosa metterebbe lei in quelle borse preparate frettolosamente per fuggire all’orrore della vita? 

 

Me lo sono chiesto e quella lista mi spaventa: mi sembra ridicola e priva di rispetto per chi si trova senza niente ad elencare le mie cose. 

Gli occhiali, un libro di mio fratello, l’astuccio, la mia agenda, il telefono e il carica batterie, le tre forcine per capelli di mia nonna, un sasso del mare di Santorini, una foto di mio padre che dorme sotto l’albero, le chiavi di casa, un fiocco di raso di mia madre, un rossetto e la mia acqua di colonia.   

 

La rubrica «Cose belle», sempre su Facebook, è come un vademecum della vita semplice e facile. Ognuno credo voglia raggiungere questo obiettivo. Cosa fa lei per costruire un percorso più o meno lineare al di là di ciò che accade soprattutto in una città di sicuro difficile e caotica come Roma? 

 

Innanzitutto cerco di capire e di non scordare le cose belle che mi capitano; cerco di spronare il mio ottimismo. Anche nei giorni peggiori, sempre capita una cosa bella. Per esempio, durante il lockdown, uno dei primi giorni più tristi in assoluto, mi sono sorpresa contenta di una camelia che stava sbocciando. Così ho iniziato a scrivere ogni giorno una #cosabella nella mia agenda. A volte mi va di condividere queste cose su Facebook con una foto e allora può essere la gioia di mia madre per una torta inaspettata, mio fratello che torna per Natale, ritornare a parlare passeggiando per Roma con un’amica, che temevo di aver perso, il caffè con le amiche la domenica pomeriggio, prima del cinema, un mazzo di fiori il sabato mattina al mercato, una posizione a yoga che mi rende felice, un cibo speciale cucinato, una telefonata inaspettata. Ogni giorno capita una cosa bella, quello che serve è il tempo per accorgersene e quello di fermarsi per scriverla. Quando la scrivi, è ancora più bella, perché resta e non passa più. Non c’è nulla di lineare nella costruzione di questo percorso, che rimane ad ostacoli e di sicuro non porta alla felicità. Non esistono vite semplici e facili (nemmeno la mia lo è) e raccogliere cose belle mi aiuta a tollerare tutto il resto. Come passeggiare lungo gli argini del Tevere, guardando le cupole delle chiese e i terrazzi meravigliosi da sotto, scordandosi il traffico delle macchine che passano di sopra. 

È come guardi le cose, che fa la differenza. 

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Molti di noi si sono trovati a dover «camminare con una stampella» a volte anche solo metaforicamente, reggersi spostando il peso tutto da una parte, affrontare scalini, marciapiedi, strisce pedonali e porte dure da aprirsi con la spinta di una sola mano. Eva è una donna forte, coraggiosa e «allenata»? 

 

Sono una donna: forza e coraggio me li sono dovuti prendere da sola. 

 

Quali sono le sue passioni oltre alla fotografia di insegne antiche? 

 

Amo leggere e scrivere, il mare e la cartoleria, con tutto il mondo di penne, stilografiche, inchiostri, adesivi, nastri colorati e carte dai vari spessori. E mangiare. 

 

Anche il suo aspetto rimanda un po’ al passato, a quelle donne di un tempo, dal viso importante, i lunghi capelli morbidi e gli occhi un po’ abbassati quasi per pudore, timidezza e riservatezza, dalla bellezza particolare e un po’ mistica. Cosa vuol dire essere donna oggi, cosa vede di diverso nel confronto con sua madre? 

 

Essere donna so quello che vuol dire per me, non so se sia «essere donna oggi»: per me è non smettere mai di credere di poter essere felice, di avere sempre un nuovo mare da scoprire. Questa illusione di avere davanti a me tutte le possibilità, è il regalo del cuore di mia madre. Il suo insegnamento più bello è in fondo la mia ricchezza vera. 

 

Continuerà a fotografare insegne antiche o ha già pensato ad un altro modo per rapportarsi al suo essere bambina, fanciulla, adolescente, creatura di un piccolo mondo antico? 

 

Tutta la mia vita è un rapportarmi alla bambina che metteva da parte i cataloghi dei giocattoli per Natale, da settembre. La vedo e la porto in ogni cosa che faccio. Le insegne, continuerò per sempre a raccoglierle. Insieme a lei. 

tratto da: Nikla Café, Ed. Omnes Artes Scrittura - Corso di Scrittura diretto da Claudia Masia

15.6.2021

Luce degli occhi
di Eva Romoli

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I ricci di Nina la mattina erano sempre randagi. D’inverno li teneva sotto cappelli colorati, a primavera li lasciava liberi, senza curarsi di tenerli in ordine, d’estate si riempivano dei riflessi del sole.

Aveva nello sguardo una leggerezza quasi infantile, come se sulle cose si volesse solo appoggiare, senza fermarsi mai. Non portava gli occhiali, preferendo perdersi i contorni della realtà, anche se un paio in borsa ce l’aveva sempre, perché sapeva di averne bisogno per ogni minima cosa. Nina era così, portava la sua bellezza nel modo di camminare e di toccare la vita. Il mercoledì, il suo giorno libero dal lavoro al bar, le piaceva andare al mercato la mattina presto e prima di tornare a casa, comprare i fiori nel negozio all’angolo.

Non sempre, solo se trovava quelli giusti, per avere colore e allegria per tutta la settimana. Quella mattina, le peonie rosa le aveva già viste passando, ma non ne era convinta. Erano sì, i suoi fiori preferiti, ma quelli erano ancora troppo chiusi, troppo piccoli. Finita la spesa, si fermò come sempre da Mario, il fioraio.

«Ciao Ni’, come stai?».

«Ciao! Tutto bene, tu?».

«Non mi lamento».

«Di sicuro stai meglio dei tulipani che m’hai venduto l’altra settimana. Lo sai che fine hanno fatto? Messi nel vaso mercoledì e giovedì, puff! Capoccia piegata».

«Ma dai, Ni’, mica è colpa dei tulipani, sei tu che li metti nel posto sbagliato i fiori e poi non tagli mai il gambo. Te l’avrò detto mille volte: tagliare un pezzetto di gambo!».

Nina rideva ascoltando Mario e si tirava i capelli dietro le orecchie, guardando per terra, come faceva sempre quando non trovava subito le parole.

«Sì, va be’, c’hai sempre ragione tu. Io oggi, per esempio, vorrei prendere quelle peonie lì, ma durano?».

«Certo, Ni’, queste so’ arrivate oggi dall’Olanda. Se avvicini l’orecchio, parlano olandese».

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Era sempre così con Mario, si stuzzicavano ogni volta e ogni volta vinceva lui, perché alla fine Nina un mazzetto lo comprava sempre. La casa senza fiori le metteva tristezza e anche quel mercoledì era andata così e alla fine le peonie le aveva prese, raccolte sotto il braccio nella carta marrone, perché le mani erano già occupate con le buste della spesa.

Salite le tre rampe di scale, entrò in casa senza fare rumore, lasciando le scarpe all’ingresso, per non svegliare Clara e zia Betta. Arrivata in cucina, per prima cosa sistemò i fiori nel vaso di vetro verde, uno per uno, togliendo le foglie in più, tagliando il gambo e sorridendo, mentre pensava alla faccia di Mario, se avesse potuto vederla.

Si godeva il silenzio, circondata dal tepore delle stanze ancora chiuse nella notte. Solo il profumo del caffè e le buste della spesa sul tavolo erano il segno della nuova giornata. Portò il vaso nella sua stanza, poi tornò in cucina. Qui poteva prendere il suo secondo caffè, aprire la finestra, sbirciare la vita nelle case di fronte, sistemare la spesa nel frigorifero. A un certo punto lo sguardo le cadde sul tavolo, dove aveva lasciato aperta l’agenda e dove in rosso, dentro a quel mercoledì, c’era scritto SISTEMARE LIBRI MAMMA.

Erano mesi che rimandava e continuava a scriverlo, una settimana dopo l’altra, in modi diversi e con penne di vari colori. La verità è che non aveva voglia di mettere le mani in quel tempo lontano, che non le era mai appartenuto. Sapeva però che buttare e fare ordine nel passato sarebbe stato l’unico modo non solo per dare un posto ai suoi di libri, ora impilati in ogni angolo della casa, ma anche l’unica via per fare spazio al presente.

«Nina, buongiorno!».

«Ohi, zia, buongiorno! Già in piedi? Ma non è presto?».

«Lascia perdere, mi sono sbagliata a guardare la sveglia...».

«Allora torna a letto, che io intanto ti preparo la colazione, devo solo finire di sistemare la spesa».

«Ma no, ti pare che mi rimetto a letto. Che hai preso di buono?».

«Parecchie cose, ma è una sorpresa, per stasera a cena».

«Ma come la cena, ti sei scordata che oggi c’è il Club del Libro al bar?».

«No, non mi sono scordata, ma il mercoledì è l’unico giorno che posso stare a casa e fare qualcosa per me».

«Perché, se vieni al Club del Libro, stai con noi, parli dei libri che stai leggendo e ti bevi un bicchiere di vino, non lo fai per te?».

«Sì, ma ho deciso di mettere a posto la libreria di mamma. E poi non mi piace parlare davanti agli altri, soprattutto se sono persone che non conosco. Dai, oggi va così. Poi è solo il primo incontro, no? Verrò un’altra volta. Pranziamo insieme?».

«Fai come vuoi, comunque io non ti capisco, dopo tutti questi anni, proprio oggi devi cominciare a svuotare la libreria di tua madre? Per il pranzo, mi dispiace, ma ho la lezione di salsa in palestra».

Ma devo sempre accontentare tutti? Pure zia Betta, incredibile oh, cerca in ogni modo di convincermi delle sue idee, poi è lei la prima che non torna mai indietro e non rinuncia alle sue cose, come col corso di salsa oggi.

A me non va di saltare la cena per parlare dei libri che leggo con gente che non conosco. Lo so che sto quasi sempre da sola, ma perché mi devo giustificare? Perché quello che scelgo di fare io per me deve sempre essere messo in discussione? Voleva dirle tutte queste cose, ma allontanandosi per andare verso la sua stanza, disse solo: «Fai come vuoi, zia».

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A metà mattina era sola in casa. Zia Betta e Clara avevano iniziato la loro giornata correndo via e lei si godeva il tempo e lo spazio. Iniziò a svuotare la libreria. Fu più facile di quanto avesse immaginato: era bastata una scala per arrivare fino all’ultimo scaffale e qualche scatolone vuoto da riempire. I Manuali delle Giovani Marmotte erano accanto ai Dialoghi di Platone, la Storia d’Italia di Montanelli nascosta dietro a un’edizione speciale della Divina Commedia, un ignoto romanzo Scrupoli si accompagnava al Dizionario Etimologico Zanichelli, i manuali di Candy Candy erano davanti ai tre volumi del Novissimo Dizionario Melzi del 1965, la raccolta illustrata In mare Pescando copriva la Storia di Roma di Tito Livio, il Nuovo catechismo olandese si appoggiava ai 3 VHS di Gassman legge Dante, ancora chiusi nel cellophane.

Fu facile tirare tutto giù, mettere quei libri negli scatoloni presi al mercato, lasciando da parte solo Dante, Tito Livio e i dizionari. Fu facile anche togliere la polvere. Gesti che non le costavano nessuna fatica. Poi lo sguardo le cadde nell’angolo in alto a destra, sull’ultimo ripiano, dove, dietro alle Ricette moderne per la pentola a pressione del 1981, era rimasta una scatola marrone piena di polvere. La strinse sotto il braccio, scese i pioli della scala e per aprirla si mise seduta per terra. Dentro trovò diverse cose: una cartolina in bianco e nero, con la foto di un edificio bianco arroccato sul costone di una montagna, con dietro scritto: 10.8.1985, M. e E.; un ex libris di legno, con la forma stilizzata dell’edificio ritratto sulla cartolina, con sotto scritto PANAGHIA. Ex libris di M.; una busta marrone con dentro lettere aperte e chiuse in buste di colori diversi e con date diverse.

Tutte da M. per E. L’indirizzo di M. sempre diverso, quello di E. sempre lo stesso: quello di casa di Nina e Clara; una copia di Amore ai tempi del colera, prima edizione, 1986, Mondadori, con quell’ex libris sulla prima pagina e una dedica: «All’unico amore dell’unica vita che voglio vivere, con intorno solo il mare. M.».

Nina rimase a lungo seduta per terra a spostare quegli oggetti, per provare a capire, pensando che un ordine fisico l’avrebbe aiutata a comprendere meglio. Sola e in silenzio cercava il senso di parole, date, indirizzi, il perché di quel libro, di quelle iniziali e soprattutto il perché tutto quello fosse raccolto in una scatola, abbandonata per anni in un angolo della libreria, dietro a libri che forse nessuno aveva mai letto.

Spostava gli oggetti e li lasciava di nuovo in disordine. Non lo sapeva nemmeno lei cosa stesse facendo. Si tolse gli occhiali e con le dita si abbassò le palpebre, come faceva sempre quando voleva smettere di guardare e di pensare. Poi riaprì gli occhi, rimise gli occhiali, si alzò e andò in cucina, fingendo di avere altro da fare. Ma fu inutile e tornò di nuovo davanti alla libreria. Così, per curiosità, aprì qualche libro tra quelli da buttare e si accorse che certi avevano lo stesso ex libris sulla prima pagina, la stessa data “10 giugno” con una dedica e tutti con la firma “M”. Aprì di nuovo la scatola di legno, andò a cercare il cuscinetto di inchiostro in camera sua insieme a un foglio di carta volante e prese l’ex libris dalla scatola. «Eccolo!» disse da sola. Era lo stesso disegno che ritornava: sulla cartolina, sul libro di Márquez all’interno della scatola, su quei libri sparsi nella libreria. Un disegno che le sembrava familiare, che era convinta di avere già visto. E poi il suo indirizzo di casa sulla cartolina e quella data, su tutte le dediche: 10 giugno, il compleanno suo e di Clara. Perché? Che significato avevano tutte quelle cose, quelle tracce raccolte, quelle dediche? Perché su certi libri sì, su altri no? Avevano un senso le edizioni di quei libri, le citazioni? E chi le aveva scritte? Chi era M? Si spaventò, per l’idea che le venne dal cuore alla mente e la mise subito da parte. E poi di nuovo sotto gli occhi quella cartolina, quella foto: era certa di averla già vista da qualche parte. Ma dove? Sentiva il cuore battere veloce e non sapeva dare un nome a quel rumore nel petto. Voleva sapere di più, ma temeva che questo avrebbe potuto farle male, scatenare in lei un’onda che poi non si sarebbe fermata più. Lei, che voleva sempre una risposta a tutto, adesso forse avrebbe preferito non fare niente, non capire, non sapere.​​

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​Cosa faccio? Rimetto tutto come stava e fingo di non aver trovato niente? Mi alzo, mi vado a fare una doccia? Stasera me ne vado al Club del Libro? Faccio contenta la zia e vado a perdere tempo? Ho vissuto tutti questi anni senza sapere nulla, non cambierà la mia vita se rimetto tutto via, butto questi libri e basta. Inseguiva i suoi pensieri camminando sola per casa. Cercava una scusa per allontanarsi da tutto. All’improvviso, però, sentì che non poteva farne a meno. Doveva capire e per farlo era necessario mettere in ordine tutti i libri e le dediche. Li aprì tutti, uno per uno, mise da parte quelli con le dediche, si riempì le dita di polvere e fece una lista, sperando che l’avrebbe aiutata a dare un significato a tutta quella storia.

L’elenco era facile: titoli, scrittori, case editrici, anno di pubblicazione, dedica. Erano 21 libri e 21 dediche. Andò in camera sua e prese il quaderno giapponese, quello di carta sottile, che usava solo per i pensieri speciali. Prese la sua penna preferita, la Kaweko nera, pennino M, inchiostro blu miosotis. Tornò a sedersi davanti alla libreria, per terra e con le gambe incrociate, prese in mano un libro alla volta e cominciò a scrivere, in ordine cronologico:

 

10.6.1986: L’AMORE AI TEMPI DEL COLERA, GABRIEL GARCÍA MÁRQUEZ, MONDADORI 1986

«Rispondigli di sì, anche se stai morendo di paura, anche se poi te ne pentirai, perché comunque te ne pentirai per tutta la vita se gli rispondi di no»

All’unico amore dell’unica vita che da ora in poi voglio vivere, con intorno sempre il mare

M.

 

10.6.1987: ODISSEA, OMERO, MONDADORI 1982

«Perché è suo destino vedere i suoi cari e tornare nella casa dall’alto soffitto e nella terra dei padri»

In questa strada sconosciuta che percorro, mi è chiaro solo che ritornerò da te

M.

 

10.6.1988: L’ISOLA DI ARTURO, ELSA MORANTE, EINAUDI 1957

«L'amore vero è così: non ha nessuno scopo e nessuna ragione, e non si sottomette a nessun potere fuorché alla grazia umana»

Torneremo, un giorno, sulla nostra isola.

M.

 

10.6.1989: INVITI SUPERFLUI, in SESSANTA RACCONTI, DINO BUZZATI, MONDADORI 1958

«Vorrei con te passeggiare, un giorno di primavera, col cielo di color grigio e ancora qualche vecchia foglia dell’anno prima trascinata per le strade dal vento, nei quartieri della periferia; e che fosse domenica. In tali contrade sorgono spesso pensieri malinconici e grandi, e in date ore vaga la poesia congiungendo i cuori di quelli che si vogliono bene»

Mi manca il passare delle stagioni, accanto a te.

M.

 

10.6.1990: RAYUELA. IL GIOCO DEL MONDO, JULIO CORTAZAR, EINAUDI 1963

«Riuscì a smettere di pensare, riuscì appena un attimo a baciarla senz’essere altro che il suo proprio bacio»

Mi mancano i nostri baci

M.

 

10.6.1991: LA CAMPANA DI VETRO, SYLVIA PLATH, MONDADORI 1968

«Sarebbe stato bello abitare in riva al mare con mucchi di bambini, maiali e polli... e passare le mie giornate in una bella cucina dal linoleum allegro a bere, le braccia belle grasse appoggiate sul tavolo, tazze su tazze di caffè»

Nei miei sogni, ti immagino così.

M.

 

10.6.1992: IPOTENUSA D’AMORE, ALDA MERINI, LA VITA FELICE 1992

«Non voglio dimenticarti, amore, né accendere altre poesie»

Un libro piccolo, per il mio amore grande.

M.

 

10.6.1993: L’AVVENTURA DI DUE SPOSI, in GLI AMORI DIFFICILI, ITALO CALVINO, MONDADORI 1992

«Quando due hanno dormito insieme, è un’altra cosa, ci si ritrova al mattino a riaffiorare entrambi dallo stesso sonno, si è pari»

Te la ricordi, quella notte sulla spiaggia?

M.

 

10.6.1994: IL POSTINO DI NERUDA, ANTONIO SKARMETA, GARZANTI 1993

«Se non posso vederla, a che mi servono gli occhi!»

Mi manca la nostra isola, ma il mondo è pieno di isole per noi.

M.

 

10.6.1995: DIALOGHI CON LEUKÒ, CESARE PAVESE, EINAUDI 1974

«La vidi che mi guardava, con quegli occhi un poco obliqui, occhi fermi, trasparenti, grandi dentro. Io non

lo seppi allora, non lo sapevo l’indomani, ma ero già cosa sua»

Questo è quello che ho pensato, la prima volta che ti ho visto

M.

 

10.06.1996: OCEANO MARE, ALESSANDRO BARICCO, RIZZOLI 1993

«Scrivere a qualcuno è l’unico modo di aspettarlo senza farsi del male»

Continua a scrivermi, amore

M.

 

10.6.1997: CENTO SONETTI D’AMORE, PABLO NERUDA, PASSIGLI 1996

«Amo il pezzo di terra che tu sei, perché delle praterie planetarie altra stella non ho. Tu ripeti la moltiplicazione dell’universo»

Quando guardo il cielo, so che le stesse stelle si addormentano sopra di te

M.

 

10.6.1998: LA PROSIVENDOLA, DANIEL PENNAC, FELTRINELLI 1994

«Vuoi essere la mia porta-aerei, Benjamin? Verrò a posarmi di tanto in tanto, a fare il pieno di senso.

...Posati pure, bella mia, e vola via tutte le volte che vuoi, ormai navigo nelle tue acque...»

Naviga pure nelle mie acque, ma per sempre

M.

 

10.6.1999: LUCERTOLA, BANANA YOSHIMOTO, FELTRINELLI 1993.

«L’amore mi aveva riempito di energia e spalancato gli occhi. Tutto in quei giorni appariva buono e limpido, senza ombre. I lineamenti delle cose, anche delle più piccole, si svelavano nitidi, esprimendo la loro essenza più profonda e il loro sottile profumo»

Mi manca vivere le piccole cose accanto a te

M.

 

10.6.2000: MEMORIALE DEL CONVENTO, JOSÉ SARAMAGO, FELTRINELLI 1984

«Questo è il miglior odore del mondo, quello della paglia smossa, dei corpi sotto la coperta, dei buoi che ruminano nella mangiatoia, l’odore del freddo che entra attraverso le fessure del pagliaio, forse l’odore della luna...»

Mi manca il tuo odore

M.

 

10.6.2001: AMORE A PRIMA VISTA, in LA FINE E L’INIZIO, WISLAWA SZYMBORSKA, SCHEIWILLER 1993

«Sono entrambi convinti che un sentimento improvviso li unì. È bella una tale certezza ma l’incertezza è più bella»

Al mio amore dell’estate

M.

 

10.6.2002: FOLLIA, PATRICK MCGRATH, ADELPHI, 1996

«Era come se l'avessero rubata, quella felicità, anzi come se l'avessero trovata per caso e se la fossero portata via di corsa, perché in realtà apparteneva a qualcun altro e loro non ne avevano alcun diritto»

La mia felicità ti appartiene

M.

 

10.6.2003: FRAMMENTO 3, SAFFO, in I LIRICI GRECI, GARZANTI 1989

«Simile a un dio mi sembra quell’uomo / che siede davanti a te, e da vicino / ti ascolta mentre tu parli / con dolcezza / e con incanto sorridi»

Vorrei essere ogni sconosciuto che incontri, per innamorarmi di nuovo di te

M.

 

10.6.2004:  L’OMBRA DEL VENTO, CARLOS RUIZ ZAFÓN, MONDADORI 2004

«Ogni libro, ogni volume possiede un’anima, l’anima di chi lo ha scritto e l’anima di coloro che lo hanno letto, di chi ha vissuto e di chi ha sognato grazie a esso. Ogni volta che un libro cambia proprietario, ogni volta che un nuovo sguardo ne sfiora le pagine, il suo spirito acquista forza.»

Fai tesoro di tutti questi libri che ti mando. Sarà come averli letti insieme

M.

 

2005: STONER, JOHN WILLIAM, THE VICKING PRESS 1965

«You must remember what you are and what you have chosen to become, and the significance of what you are doing. There are wars and defeats and victories of the human race that are not military and that are not recorded in the annals of history. Remember that while you're trying to decide what to do.»

Vorrei avere tanto tempo, solo per trascorrerlo in silenzio, con te

M.

 

2006: L’AMORE AI TEMPI DEL COLERA, GABRIEL GARCIA MARQUEZ, MONDADORI 1986

«Così aveva finito per pensare a lui come non si era mai immaginata che si potesse pensare a qualcuno, presagendolo dove non era, desiderandolo dove non poteva essere, svegliandosi d’improvviso con la sensazione fisica che lui la contemplasse nel buio mentre dormiva.»

Ricordi quando ti lasciai questo libro, quella sera sulla spiaggia? Io lo sentivo che la vita ci avrebbe girato intorno, come il mare sull’isola, e che saremmo restati ad accoglierla. Noi siamo ancora qui e io te lo regalo di nuovo

M.

 

Il pomeriggio volò via. Alla fine mise il quaderno nel cassetto della scrivania, come se quel gesto la potesse aiutare ad allontanare i pensieri che le correvano nella testa. Nelle settimane successive, tornò a fare le cose di sempre. Avrebbe voluto parlare con Clara, fare anche a lei le domande che si erano fermate nella sua testa, ma non sapeva da dove iniziare e allora preferì non fare nulla. Preferì non scegliere, aspettare che la vita lo facesse per lei.

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Tempo dopo, una mattina presto, Nina scese per prima al bar, come sempre. Accese le luci, la macchina del caffè, mise un po’ in ordine e cominciò a fare la carrot cake per la colazione. Sfornata la torta, la mise a riposare sul bancone, a lasciare che profumasse tutto intorno di zucchero caldo e di cannella. Mentre seguiva la semplicità dei gesti quotidiani, all’improvviso le tornò in mente la cartolina della scatola marrone e ricordò esattamente dove aveva già visto quell’edificio. Corse al cassetto del bancone, frugò dentro e tirò fuori il quaderno dove erano raccolte le cartoline arrivate negli anni al bar. Un ricordo della madre che né lei né Clara avevano avuto la forza di spostare da lì. Lo sapevo, che l’avevo già vista! Eccola! L’edificio arroccato adesso era sotto i suoi occhi a colori. Era tutto bianco, con piccole finestre quadrate, semplice, allungato sopra una montagna nera, come un organo al muro di una chiesa. Davanti, il mare, di un blu infinito. Sul retro della cartolina, riuscì a leggere, in altro a sinistra, “Panaghia di Amorgos, Grecia, Emilia”, scritto con la calligrafia morbida e infantile, che ricordava bene: quella della madre. Rimase senza fiato. La cartolina nella scatola marrone era dalla Grecia, la E. delle dediche era Emilia, la madre.

Le ritornò nel cuore il ricordo di lei che ascoltava il sirtaki mentre faceva la doccia, metteva l’origano in ogni insalata, si faceva mandare il miele da Creta, aveva dipinto tutte le sedie della cucina di blu, teneva la foto di Capo Sounio sul comodino vuoto e sapeva le poesie di Kavafis a memoria. Ripensò alla sua fissazione per il caffè nel pentolino di metallo, che guai chi glielo toccava, e al suo sogno di andare in Grecia anche se non c’era andata mai, per non lasciare né lei né Clara né il bar.

«Un caffè schiumato e un bicchiere d’acqua frizzante, grazie».

«...»

«Nina... un caffè e un bicchiere d’acqua frizzante, grazie».

«Ah sì... Scusami Nereo, ma ero soprappensiero».

«Sì, me ne sono accorto. Spero niente di grave».

«No, credo di no. Lo spero, almeno. Ti va una fetta della nostra carrot cake, è appena uscita da forno...».

Spesso Nereo era il primo ad entrare al bar la mattina. Lo chiamavano “l’uomo del cinema”, quello che girava sempre lì davanti e che aveva scambiato il bar per una casa. Ogni volta che Nina lo vedeva, le sembrava di notare un particolare in più. Quella mattina, vedeva un uomo magro e brizzolato, le mani grandi e sottili, coi pantaloni larghi, pieni di tasche vuote, la camicia pulita coi polsini e il colletto consumati, sopra una felpa di un colore incerto e di una taglia sbagliata, una giacca di velluto a coste marrone, intorno a lui un odore di colonia a buon prezzo, ai piedi delle scarpe da ginnastica così bianche da sembrare nuove. Quel giorno gli vide dentro agli occhi una luce che non aveva visto mai.

«Va be’ dai, proviamo ’sta torta... Ne sento parlare sempre, oggi la voglio proprio assaggiare... però mi devi levare una curiosità».

«Dimmi».

«Perché la chiamate carrot cake e non torta alla carota?».

Nina lo guardò ridendo e abbassò gli occhi.

«Le fissazioni di Clara. Sai quante volte ho cercato di scrivere sul menù e sulla lavagna “Torta alla carota”? Non si può, lei lo prende come un affronto personale. Dai, vatti a sedere, che ti porto tutto io».

Nereo ricambiò il sorriso con gli occhi, si girò, attraversò il bar e dopo aver lasciato la borsa accanto al caminetto, si tolse la giacca, piegandola con cura e la appoggiò sul bracciolo consumato della poltrona verde. Prese un libro da leggere, poi si accomodò soddisfatto, felice di averla trovata tutta per sé.

«Ecco qua, caffè schiumato, acqua frizzante e fetta di torta alla carota per Nereo».

Abbassandosi di poco, per lasciare il vassoio sul tavolino, vide la copertina del libro che Nereo aveva tra le mani e sentì un lampo nello stomaco.

«Amore ai tempi del colera!».

«Sì. Lo conosci?».

«Sì, lo conosco, ma non l’ho mai letto».

«Be’, dovresti... parla dell’amore, del senso del tempo, del valore dell’attesa, del peso delle parole dette e regalate, delle promesse che durano una vita».

Mentre Nereo parlava, Nina gli vide bene gli occhi, forse per la prima volta così da vicino. Vide di nuovo quella luce, come quella che di notte, in casa, arriva dalle finestre sulla strada e ti fa vedere nel buio: un chiarore improvviso e familiare, qualcosa che in tutti quegli anni di caffè e saluti mattutini non aveva visto mai.

«Se vuoi leggerlo, te lo lascio. Quando lo hai letto, me lo restituisci. Lo metto qui, con gli altri libri», e fece per allungare il braccio verso il caminetto.

«No, lì no. È un caos e finisce che si perde».

«No, non si perderà» e mentre parlava, Nereo lasciò distrattamente il libro tra gli altri, concentrandosi sulla sua colazione. Finì così quel dialogo, perso in una mattina presto qualsiasi, col bar che si stava per riempire dei rumori di sempre: i clienti che cominciavano ad entrare, Clara che sarebbe arrivata col suo carico di colori, entusiasmi e tisane, con le battute di Kevin tra un’ordinazione e l’altra, con gli occhi curiosi di Mille su tutti. Un dialogo perso nell’angolo tra la poltrona e il camino e Nina lo lasciò lì.

Fu il tempo a farglielo ritrovare nel cuore, quel dialogo, quando qualche giorno più tardi, a fine giornata, da sola finalmente e padrona della sua poltrona verde, l’occhio le scivolò sul ripiano davanti al camino, vide il libro, pensò a Nereo, lo prese tra le mani e lo aprì. Dentro, proprio sulla prima pagina, trovò raffigurato lo stesso “ex libris di M.” che era sui libri a casa e sentì di nuovo quel senso di impotenza e di stupore che aveva provato quel giorno mentre metteva in ordine i libri della madre. Chiuse e aprì il libro molte volte, guardandosi intorno. Era proprio davanti a lei, il filo che teneva insieme il suo presente e il suo passato, un filo sottile, prezioso e lungo da quell’angolo colorato di periferia fino al mare. Doveva solo avere il coraggio di prenderlo tra le dita.

Il giorno dopo, quel filo portò di nuovo davanti a lei gli occhi di Nereo, che come al solito era arrivato al bar per primo, salutandola col sorriso. Nina cercò di essere quella di sempre, nascondendosi dietro ai gesti quotidiani, ma temeva che le parole che aveva nel cuore, e soprattutto le domande, le si leggessero sul viso.

«Ciao, Nina! Un caffè schiumato, un bicchiere di acqua frizzante e una fetta di torta alla carota».

Ecco. È arrivato. Faccio finta di niente. È tutto solo nella mia testa. Non è possibile.

«Ciao Nereo! Mi dispiace, la torta oggi non c’è, non sono riuscita a farla... va bene un cornetto salato? Non ho altro di fresco, purtroppo».

«Sì, va bene».

E se invece fosse tutto vero? Allora anche lui dovrebbe sapere e per questo è sempre qui al nostro bar. E se avesse anche lui ritrovato quel pezzo di filo?

«Siediti, ti porto tutto io».

Il tempo di preparare il vassoio con piattino, bicchiere e tazzina, che Nina era davanti a Nereo, seduto sulla poltrona verde.

«Tutto bene, Nina?».

«Sì, credo, almeno credo... perché?».

«Perché sei qui, ma con la testa sembri stare da un’altra parte. È un po’ che ti vedo così».

«Stavo pensando a mia madre. A tutte le domande che mi ha lasciato senza risposta, ai vuoti che non sono stata capace di riempire e che sono tutti ancora qui dentro».

«Nel cuore?».

«Sì e anche nella testa. Ha vissuto solo per noi, ma avrebbe dovuto parlarci e non lasciarci solo domande».

«Immagino sia difficile, però dai, prova a non giudicarla, non puoi sapere il motivo e poi di sicuro quello che ha lasciato dietro di sé è un grande carico di vita e di amore. Si vede da questo bar».

«Come puoi dirlo, tu?».

«Eh, come posso dirlo... Lo sento. Sento che è così».

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Mentre Nereo parlava, dagli occhi di Nina scesero due lacrime piccolissime, piene di tutte le emozioni e le domande di quei giorni. Avrebbe voluto urlare quello che aveva dentro, ma riuscì solo a far scivolare giù quelle lacrime. Si girò di spalle per pulirsi velocemente il viso senza farsi vedere ma Nereo si alzò e l’abbracciò in silenzio.

L’abbraccio durò un istante, il tempo che impiegò la porta del bar ad aprirsi, facendo entrare un uomo con un cappello nero. Fu un momento. Nereo lasciò Nina e si girò verso la porta. Un vento sottile e caldo entrò dietro all’uomo e subito dopo, uno sparo.

Urla e paura. Nina si precipitò al telefono, Nereo si trascinò verso l’uscita, cadde contro la porta del bar e scivolò sui gradini davanti. Accorsero le prime persone mentre da lontano si avvertiva già la sirena dell’ambulanza. Attimi concitati, poi Nereo fu posto sulla barella. Nina incontrò di nuovo i suoi occhi. Rivide quella luce e ci trovò tutte le parole mai dette. Le arrivò il tempo che non avevano avuto, la leggerezza dei momenti non vissuti, quelli che Nina aveva sempre immaginato: le mattine prima di andare a scuola, le recite di fine anno, i pranzi della domenica con la televisione in sottofondo, i bignè alla crema, i viaggi in macchina per andare in vacanza, gli addobbi di Natale, il suo primo amore, la prima volta in bicicletta da sola, tutte le volte che si erano cercati negli occhi degli altri, senza mai trovarsi.

Quella luce degli occhi rispose a tutte le domande che Nina si era portata dentro per la vita e le diede la forza di raccogliere le emozioni in una sola parola, piccolissima e facile, che usò per la prima volta per salutarlo.

Sorridendo.

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