Chi
sono


Dal 1979, nel mio sorriso passa l'aria.
L’anno non è sicuro, l'aria sì.
Nessuno a casa mi ha mai imposto una correzione, anche quando sarebbe bastato un semplice apparecchio anni ottanta per essere a posto. Per essere come tutti.
Che tra i miei denti passasse la luce, a casa mia, è stato sempre un fatto indiscutibile e gioioso, come le mie fissazioni per la cartoleria, per i pattini e per i registratori di cassa dei negozi.
Ringrazio mio Padre, mia Madre e mio Fratello di non averci fatto mai caso a quello spazio, e così di avermi lasciato la porta aperta verso il mondo.
Ora non ho più sei anni e il mio sorriso è sempre qui: incerto, infantile, difettoso.
Sono grata all'incoscienza di chi l’ha lasciato crescere per quello che è ora, perché è la cosa più bella che ho.
Questo sorriso e l’aria che ha conosciuto mi hanno permesso di coltivare le imperfezioni e le cose minime, che sono il cuore di questo progetto e della mia vita.
Tutto il resto, è merito mio.

Sono nata nel 1973.
Non c'erano ecografie a quel tempo, dunque il mio arrivo è stata una sorpresa per tutti.
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Per mio Fratello di più: lui voleva un cavallo.
Dopo qualche anno complicato, quando pensavano tutti che sarei morta oppure sarei cresciuta a fatica, con mamma che per farmi il pranzo e la cena comprava quarti di carne di prima scelta per due cucchiaini di estratto e cuoceva carote e patate dalla mattina, coi tacchi per casa, spremendo mele e limoni per assicurarmi le vitamine…
...un giorno ho mangiato l'acquacotta con mio Zio e mi sono svegliata con la ciccia e tutti sono stati felici.
Ho passato anni incredibili sul terrazzo con le mattonelle blu, a pattinare, a fare il bagno nel canotto con mio Fratello, a spostare le piantine di fragole di Papà, a spiaccicare con le dita le formiche rosse, ad apparecchiare la tavola, con la gioia delle rondini in cielo per l’estate che arrivava e Mamma che diceva: «Eva, stasera mangiamo fuori!».
I pomeriggi li passavo a giocare nel giardino di scuola, dove avevo un negozio avviato di ghiande e mimose. Senza scontrino, in nero, sotto la quercia.
Per Natale con mio Fratello facevamo la lista dei regali, con il catalogo del negozio di giocattoli e io avrei tanto voluto un registratore di cassa con scontrino...
Ma non è mai arrivato. Così mi sono adattata alla casa di Barbie a tre piani, che però mi crollava sempre dietro la porta e io dovevo rimetterla a posto... a sei anni già risolvevo problemi.
Ma sono stata una bambina fortunata: a casa trovavo sempre la mia Mamma profumata e bionda in cucina e Papà che tornava sempre in tempo per noi con la cravatta da lasciare sulla sedia e un fratello accanto a me, sempre.
Non sono stata mai sola, nel bene e nel male.
A volte il pomeriggio, dopo i compiti, andavo al supermercato dalla mia amica cassiera del reparto giocattoli, lei fortunata, che aveva il registratore di cassa con lo scontrino... e stavo lì fino alla fine, perché amavo tutti quei gesti che si ripetevano, i conti della chiusura...
Le mie giornate erano sempre comunque scandite dai negozi: la lista della spesa, la spesa, il pranzo, la cena…
Avevo i miei negozi del cuore fin da piccola e da sempre ho visto, dentro ogni negozio, le persone prima delle cose.
Questo lo devo a mia Madre, perché il rito della spesa insieme è vecchio quanto me… quanto noi assieme.
Prima nel seggiolino del carrello, poi dietro a lei per mano, poi accanto a lei senza mano, poi davanti a lei di nuovo per mano.
Poi da sola.
La magia dei negozi mi è restata nel cuore come un’impronta.
Anche quando sono arrivata nella nuova casa ho subito fatto amicizia con la signora del «Vini e olii» qui sotto… cucinava anche le uova lesse… e poi c’era la merceria dove compravo la lana per le sciarpette di Natale.
Poi la scuola con la mia sorella del cuore, il latino e il greco, i pomeriggi a studiare l’aoristo, i maglioni fatti a mano, l’università, l’archeologia, il tedesco, il lavoro per caso e poi per passione, l’amore della mia vita, la vita che cambia per tutti, la fortuna di non aver scordato nulla.
La fortuna di essere qui, tra quello che amo.
Ricordi e parole.
Intervista ad Eva Romoli
«La Repubblica», 11 marzo 2021
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Le insegne dei negozi di Roma catturati da Eva:
«Perché non vadano persi, come i mestieri»
di Katia Riccardi
Se Roma fosse ancora giovane, assomiglierebbe a Eva. I capelli lunghissimi di quelli che non si riesce a contare, la risata all’improvviso come le tapparelle dei palazzi di Roma quando si alzano di colpo, facendo entrare mulinelli di luce e polvere. Eva ha studiato Archeologia e lavora all’Istituto austriaco; di cognome fa Romoli e a Roma è nata e cresciuta. Per la sua città mette da parte cose sciupate ma da non buttare via. Niente di storico. Eva conserva solo le insegne di negozi.​​​
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Da cinque anni fotografa le scritte di mercerie, pelletterie, vini e olii, rosticcerie, pizzicherie, cartolerie e qualunque cosa le ricordi un momento o la ispiri. Su Facebook, l’album «Lettere antiche» ora ne contiene quasi settecento. Alcuni negozi resistono, molti non ce l’hanno fatta a sopravvivere al lockdown. Basta scorrere le immagini per viaggiare nel tempo di una volta e di una città più semplice, Roma, senza un trucco troppo carico.
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Come ha cominciato, ricorda la prima insegna? «Era un febbraio del 2016, ne ho raccolte 658 fino a oggi. Ho cominciato per gioco e forse anche per tigna. Un pomeriggio, mentre aspettavo per entrare al cinema, mi sono fermata davanti a una tavola calda. Ho guardato l’insegna rossa e il pensiero è andato subito a quelle mattine prima di andare a scuola, quando compravamo mille lire di pizza bianca per la merenda. La prima è stata proprio quella della tavola calda. Poi le altre. Senza frenesia. Mi sono venute incontro loro e un grande aiuto è arrivato anche da mio fratello, gli amici, quelli della vita e quelli di Facebook».​​​​​
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Eva racconta, è giovane, lo stesso, il passato sembra lontano. Troppo per una generazione che ha cominciato senza pesi ed è finita con touchscreen parlanti tra le mani. Ascoltare una quarantenne mentre parla di quei «venerdì sera con mio padre, da piccola, a comprare in rosticceria i supplì caldi che ti passavano sul bancone con la velina, così leggera che si ungevano le mani al primo morso», è la speranza che qualcosa possa salvarsi ancora e lasciare ditate a sfocare schermi di telefoni, per una buona volta.​​
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Eva e «la merceria dove andavo a comprare i bottoni e i rocchetti di filo per mia madre e mi perdevo davanti alle pareti coi cassettini di legno fino al soffitto. La pasta all’uovo e le mattine presto del 24 dicembre, in fila a prendere i tortellini».
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Da dove nasce l’esigenza di fermare insegne in uno scatto?
Ho sentito che se avessero chiuso negozi del genere, se non ci fossi più capitata davanti, si sarebbero spezzate anche le occasioni di questi ricordi. E non lo volevo. Tutte queste attività quasi sempre hanno insegne antiche; scritte con caratteri semplici, in corsivo o in stampatello, che portano la loro antichità nella forma, ma che sono anche un messaggio di persone che non ci sono più, di vecchi mestieri. Spariti, come le parole per definirli».
Quali?
Vini e olii, salsamenteria, coloreria, vapoforno, foderami, pantofoleria, mesticheria, latteria, abbacchi e polli solo per dirne alcune. Ho trovato così il nome dell’album, «Lettere antiche». Fotografando riuscivo a tornare in quel mondo lì.
Alcune sono anche più vecchie di lei, a cosa le collega?
Ad un rapporto col quotidiano che vorrei non andasse perso, che cerco di non perdere nella mia vita. Come andare a piedi per il mio quartiere, passare davanti a un negozio e sentirmi salutare per nome. Dietro un’insegna c’è sempre un’attività, ma soprattutto c’è una storia, ci sono le persone e le vite di tutti quelli che lì sono passati, hanno comprato, hanno lasciato i loro soldi e i pezzi delle loro vite. Come me.
Scritte senza clamore con l’unico scopo di voler essere utili. Roma perde pezzi di semplicità?
E spazi perduti. Come «Vini e oli». Ce n’era uno a via degli Scipioni, gestito da una coppia di fratelli. Erano sempre lì. Non avevano quasi orari di apertura e il loro negozio era come una famiglia. Dentro s’incontravano sempre le stesse persone, ognuna al proprio orario e con la solita piccola spesa quotidiana, la parola, il confronto, la risata, il tempo in comune, che per alcuni era l’unico da condividere. I fratelli scrivevano gli avvisi e i prezzi a mano, con la calligrafia di chi lo fa poco, usavano i pennarelli a punta grossa, per dare importanza alle parole. Erano sempre dietro al bancone, con il vino da spillare in quei vecchi frigoriferi color crema di legno e vetro, che non ci sono più. Era uno di quei posti senza tempo, come loro. Quando entravi venivi catapultato nel passato, ma con fuori il tuo tempo ad aspettarti ed era sempre bello attraversare quella soglia. Aver fatto la foto a quell’insegna, ora è la porta con cui torno lì.
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Amici hanno mandato foto da altre città?
Su Facebook la mia costanza nel cercare le insegne è diventata, quasi da subito, un gioco di affetto reciproco e piano piano i miei amici hanno cominciato a mandarmi insegne da ogni parte di Roma, dell’Italia e anche dall’estero. È stato un modo per ricevere un pensiero ed è forse, l’aspetto più inaspettato e bello di questa avventura fotografica e in parte anche della mia esperienza sui social.
Che farà di queste foto? C’è chi chiede una mostra.
Una mostra non penso, mi piacerebbe sceglierne alcune e scrivere, per ogni insegna, un racconto ispirato all’attività che c’è dietro, alla vita quotidiana, lasciando spazio ai miei ricordi e alla mia fantasia. Sarebbe anche un modo per continuare a dare vita alle attività che hanno chiuso.
Tra i moltissimi negozi che non hanno retto ai lockdown, ci sono anche i suoi?
Adesso comincio a vedere che alcuni hanno chiuso. Di un’insegna, in questi giorni, mi piange il cuore più delle altre: il cinema «Azzurro Scipioni». Quanta vita, amore e cultura in quelle sale. Per me quel cinema è come Villa Borghese. Andrebbe tenuto aperto a prescindere dall’utile economico. Se a Villa Borghese ci va una persona o 100, che differenza fa? A nessuno verrebbe in mente di chiuderla. Ecco, quel cinema fa parte del mio paesaggio dell’anima. Va tenuto aperto e basta. Chi passa deve avere la possibilità di entrare. Proprio come chi, passeggiando per la città, decide di andare al parco e si siede a godersi il paesaggio.
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​​​​​​​​​​Trova bellezza nella semplicità, com’è la sua Roma chiusa per virus?
Cercare di trovare il bello nelle cose più semplici di tutti i giorni è la mia forma di sopravvivenza personale. In questi mesi di reclusione forzata e di libertà limitata è stato un punto di forza avere i miei posti speciali, le persone dalle quali tornare. La mia Roma chiusa per il virus è stata come la Magnani, quando, dopo essersi fermata per strada perché le facevano male i piedi, si rialza e cammina fiera, in mezzo alla polvere, da sola, col vestito mezzo sgualcito e impolverato, ma aggiustandosi i capelli e sorridendo, come per dire a tutti «Eccome, sto a torna’!».
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Tre interviste





Intervista ad Eva Romoli
«RomaToday», inserire data
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Le insegne storiche di Roma fotografate da Eva:
«Perché certi ricordi non vadano persi»
Intervista a Eva Romoli, che da cinque anni fotografa e conserva
le insegne dei negozi storici della Capitale
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Mentre a causa del Covid tante serrande continuano ad abbassarsi, tante attività commerciali presenti da una vita a Roma sono costrette a chiudere, c’è chi le insegne storiche della Capitale ha pensato di fotografarle – già da qualche anno – per evitare che un giorno, anche quando non ci saranno più, vadano dimenticate.
È l’idea di Eva Romoli nata per gioco cinque anni fa, davanti ad un cinema, mentre aspettava le amiche per entrare. «Ho notato due insegne – racconta a RomaToday – “Tavola calda” e “Orologeria Seiko”, entrambe storiche, e mi sono chiesta “Ma se queste insegne spariscono, sparisce anche l’occasione di riassaporare certi profumi, certi ricordi”».
Così Eva ha iniziato a guardarsi intorno, quando andava a fare la spesa, quando usciva per lavoro o per passeggiare, inizialmente nel suo quartiere, Prati, e ha iniziato a fotografare tutte le insegne storiche che le capitava di vedere e a raccoglierle su Facebook in una cartella.
Da allora la raccolta si è sempre più arricchita, anche grazie al contributo di amici che incuriositi dall’idea di Eva Romoli si sono uniti a lei, fotografando le insegne storiche della propria zona e inviandogliele. «La fotografia non ha nulla a che vedere con il mio lavoro – ci tiene a sottolineare Eva – le foto non sono perfette, non sono una fotografa e non ho ambizione di diventarlo, il mio obiettivo è quello di conservare qualcosa che un giorno potrebbe essere dimenticato».
Ad alcune delle insegne fotografate, poi, Eva è particolarmente legata: «C’è ad esempio l’insegna della trattoria «l’Abruzzese», il cinema «Azzurro Scipioni», la pasta all’uovo dove vado ancora, una serie di cartolerie, la pizza rustica dove passavo a prendere la pizza prima di andare a scuola e tante altre».
Dal 2016 ad oggi Eva Romoli ha raccolto 675 insegne storiche, che raccontano la Capitale dal centro alla periferia. Insegne di forni, pastifici, trattorie, calzolai, librerie, mercerie, pizzerie e altro ancora, tutte raccolte su Facebook: «Facebook mi dava più il senso della raccolta rispetto ad altri social, come Instagram ad esempio», spiega a «RomaToday».



Intervista ad Eva Romoli
«Condivisione Democratica» n. 2-3, 31marzo 2022
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La ragazza che sapeva trattenere le cose che sparivano
Storia di una principessa un po’ maga e un po’ fotografa
di Giovanna La Vecchia
Somiglia in tutto ad una bambina antica, il suo aspetto fisico, i suoi lunghi capelli che ti viene voglia di sistemare con un enorme fiocco dal colore sgargiante, il tono della sua voce, la sua lentezza quasi avesse a disposizione l’eternità, la sua ingenuità, le sue lettere, i suoi pensieri e le sue parole scritte come in un diario segreto, quello di un tempo che aveva lucchetto e chiave. Il suo desiderio di fermare il tempo traspare in ogni cosa che fa, che pensa, che dice, appare come un volersi rapportare ad uno dei momenti più felici e sereni della sua vita. Eppure è una donna, una professionista, forte, coraggiosa, profonda. Ma quell’odore di biscotto appena sfornato che racconta una storia come fosse una favola, se lo porta addosso come un secondo abito.
Eva Romoli nel 2016 inizia un’attività molto curiosa, fotografa insegne antiche di ogni tipo di attività commerciale. Ovviamente inizia da Roma, sua città d’origine, ma poi la sua iniziativa interessa ogni parte del mondo e coinvolge sempre più persone grazie alla pubblicazione su Facebook. La storia coinvolge e raggruppa sempre più persone, amici reali e virtuali, che la sostengono, le inviano materiale, condividono e commentano. Eva diventa popolare, «La Repubblica» le dedica un ampio spazio sul quotidiano, la curiosità cresce e questo suo piccolo mondo antico inizia a diventare sempre più grande e popolato.
L’abbiamo incontrata per i lettori di «Condivisione Democratica».
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​​​​​​Più che una passione la sua appare come una esigenza, un bisogno, una chiara volontà di fermare il passato, i ricordi, le emozioni di un tempo in cui la semplicità e la felicità erano più a portata di mano, come se non si dovesse poi faticare molto per ottenerle. Quando si è resa conto di quanto fosse necessario e fondamentale utilizzare la fotografia per ristabilire un legame così forte ed irrinunciabile?
Era febbraio 2016. La mia idea originaria, quel pomeriggio, era di fotografare tutti i posti dove ero stata felice con l’uomo di cui ero innamorata. Volevo regalargli una foto per ogni posto in cui eravamo stati insieme. Poi, guardando portoni e vetrine, mentre aspettavo per entrare al cinema, in quei momenti che sembrano momenti persi camminando sul marciapiede, mi sono caduti gli occhi sull’insegna rossa della tavola calda. Era quell’ora del pomeriggio che ancora non è buio e che basta già per rendere le insegne ancora più luminose.
Ho usato la fotografia che conoscevo, quella col cellulare, perché era l’unico strumento per creare la mia scatola dei ricordi; per fermare i ricordi nel tempo; per dare a quei posti, a quei profumi, a quei mestieri e storie, una vita senza fine.
Cosa accade ogni volta che fotografa una vecchia insegna?
Provo la grande soddisfazione di esserci riuscita, di aver fatto in tempo, di essermi spinta per caso fino a lì. In realtà non sono mai andata apposta a cercare insegne per le strade. Sono le insegne che si sono lasciate trovare durante le mie passeggiate e i miei spostamenti a piedi e poi tantissime le devo ai miei amici, di vita e dei social. Alcuni conosciuti virtualmente solo grazie a questa avventura e che non smettono ancora di farmi costantemente bellissime sorprese.
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​Una raccolta di oltre mille insegne in sei anni, la prima risale al 2016. Sono raccolte in tutto il mondo?
Sono arrivata a 1094 e sì, vengono da tutto il mondo. Ho iniziato dal mio quartiere e mi sono allargata a tutto il mondo, alle piccole isole greche, a quasi tutti i posti di vacanza di amici e di mio fratello. Le insegne sono diventate quello che erano in passato, le cartoline (anche di queste ne ho una bella collezione, una scatola di tutte quelle ricevute): ogni insegna diventa un pensiero e un saluto per me.
Qual è stata l’insegna più significativa e per quale motivo?
Quasi impossibile sceglierne una…. Le mie preferite sono foderami, passamanerie, negozi di bottoni, cartolerie, vecchie salumerie; se proprio devo scegliere, d’istinto il pensiero va al Vini e olii vicino casa, che poi ha chiuso dopo poco tempo e sono stata felice di aver fermato quel ricordo, prima che venisse cancellato dalla strada.
Le insegne vanno di pari passo con mestieri ormai quasi del tutto scomparsi o con definizioni di mestieri che sembrano non appartenere più al vocabolario comune e quotidiano. Salsamenteria, coloreria, foderami, mesticheria. Parole che per molti rappresentano un vissuto sano e pieno. Il linguaggio dei giovani oggi è più aggressivo e diretto. Secondo lei il mestiere del «narratore» di vita passata può aiutare i ragazzi ad un confronto più maturo anche con se stessi?
Sarebbe un aspetto sul quale riflettere, ma che non nasce con la mia collezione. La mia raccolta ha una lettura molto più personale e non voglio veicolare nessun insegnamento. Mi basterebbe che la foto di un’insegna di foderami sollevasse la curiosità di chi ora o fra qualche anno non sa e non saprà nemmeno che anni fa si compravano le fodere e i bottoni, per fare e per riparare i vestiti. Mi piacerebbe non andassero perse quelle attività e quelle atmosfere, quel modo di vendere e comprare senza fretta. Per esempio il piccolo mondo che ruota intorno alle pizzicherie, ai commessi con le cravatte dai nodi grossi, alle persone che entrano, si riconoscono e si salutano.
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Quanto è importante la volontà di condivisione in lei e come pensa di attivarla nel modo più ampio possibile?
La condivisione è l’anima di questo percorso. Per questo ho scelto di pubblicare tutte le foto in un album pubblico su Facebook: per renderlo visibile e fruibile da tutti quelli che ne abbiano curiosità e per fa partecipare più persone possibili. Fossi stata da sola, questa raccolta non sarebbe diventata quella che è.
Ah, importante: anima del progetto è che le foto devono essere scattate sul posto, bisogna passarci davanti fisicamente e poi ogni foto deve essere localizzata topograficamente (sempre la città, meglio se con la via). Unica eccezione l’ho fatta io fotografando, all’interno di due ristoranti e di un negozio di sanitaria, le loro foto delle vecchie insegne, conservate in quadri appesi al muro, dopo la ristrutturazione dei locali.
I suoi studi di archeologia ed il suo lavoro all’Istituto austriaco sono una parte importante della sua vita. Qual è il suo sogno per il futuro?
I miei studi sono il mio passato e quello che mi ha formata e resa quello che sono, regalandomi lo sguardo che ho sulle cose, sulla storia e sulle parole; il lavoro che faccio da vent’anni mi permette il contatto con le persone e lo amo per questo. Di sogni ne ho sempre tanti. Se devo dirne uno legato a questa esperienza è pubblicare un libro con una scelta di insegne, raccontando la storia vera di quell’attività e scriverne accanto una io, una immaginata da me.
Come immaginava il mondo da adulta quando la mattina prima di andare a scuola comprava mille lire di pizza bianca per la merenda?
Per me, il mio mondo futuro di bambina era tutto il mio presente e contava solo che le persone che amavo fossero con me e che non mi mancasse mai il mare d’estate, la lista dei regali di Natale da scrivere con mio fratello, la pizza bianca sotto al banco. Mi immaginavo ballerina e mamma. L’immaginazione non mi è mai mancata.
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La sua iniziativa ha destato molta curiosità ed interesse, tanto da coinvolgere il quotidiano «La Repubblica» che le ha dedicato ampio spazio. Quando ha iniziato a fotografare le vecchie insegne immaginava ci potesse essere uno sviluppo «produttivo» e costruttivo?
No, non l’ho mai pensato e non lo penso neanche ora. Per me iniziare è stato come mettere ricordi in un cassetto e mai avrei immaginato tutto questo interesse e le proposte che mi sono state fatte.
Sulla sua pagina Facebook ha creato l’album «Lettere antiche» dove pubblica non solo il materiale fotografico ma pensieri, riflessioni, spunti e brani di altri autori.
L’album #lettereantiche su Facebook è dedicato solo alle insegne. L’album per le parole è #parolemie dove scrivo delle mie cose, senza un vero filo logico, se non il mio istinto, per fissare i miei momenti di gioia e quelli tristi. È nato per non lasciare perse nel flusso di Facebook le mie parole. Come vede, l’istinto alla conservazione e alla raccolta sono sempre prioritari per me!
Tra tanto materiale ho molto apprezzato il suo scritto sui bambini, le donne e la guerra. Cosa metterebbe lei in quelle borse preparate frettolosamente per fuggire all’orrore della vita?
Me lo sono chiesto e quella lista mi spaventa: mi sembra ridicola e priva di rispetto per chi si trova senza niente ad elencare le mie cose.
Gli occhiali, un libro di mio fratello, l’astuccio, la mia agenda, il telefono e il carica batterie, le tre forcine per capelli di mia nonna, un sasso del mare di Santorini, una foto di mio padre che dorme sotto l’albero, le chiavi di casa, un fiocco di raso di mia madre, un rossetto e la mia acqua di colonia.
La rubrica «Cose belle», sempre su Facebook, è come un vademecum della vita semplice e facile. Ognuno credo voglia raggiungere questo obiettivo. Cosa fa lei per costruire un percorso più o meno lineare al di là di ciò che accade soprattutto in una città di sicuro difficile e caotica come Roma?
Innanzitutto cerco di capire e di non scordare le cose belle che mi capitano; cerco di spronare il mio ottimismo. Anche nei giorni peggiori, sempre capita una cosa bella. Per esempio, durante il lockdown, uno dei primi giorni più tristi in assoluto, mi sono sorpresa contenta di una camelia che stava sbocciando. Così ho iniziato a scrivere ogni giorno una #cosabella nella mia agenda. A volte mi va di condividere queste cose su Facebook con una foto e allora può essere la gioia di mia madre per una torta inaspettata, mio fratello che torna per Natale, ritornare a parlare passeggiando per Roma con un’amica, che temevo di aver perso, il caffè con le amiche la domenica pomeriggio, prima del cinema, un mazzo di fiori il sabato mattina al mercato, una posizione a yoga che mi rende felice, un cibo speciale cucinato, una telefonata inaspettata. Ogni giorno capita una cosa bella, quello che serve è il tempo per accorgersene e quello di fermarsi per scriverla. Quando la scrivi, è ancora più bella, perché resta e non passa più. Non c’è nulla di lineare nella costruzione di questo percorso, che rimane ad ostacoli e di sicuro non porta alla felicità. Non esistono vite semplici e facili (nemmeno la mia lo è) e raccogliere cose belle mi aiuta a tollerare tutto il resto. Come passeggiare lungo gli argini del Tevere, guardando le cupole delle chiese e i terrazzi meravigliosi da sotto, scordandosi il traffico delle macchine che passano di sopra.
È come guardi le cose, che fa la differenza.
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Molti di noi si sono trovati a dover «camminare con una stampella» a volte anche solo metaforicamente, reggersi spostando il peso tutto da una parte, affrontare scalini, marciapiedi, strisce pedonali e porte dure da aprirsi con la spinta di una sola mano. Eva è una donna forte, coraggiosa e «allenata»?
Sono una donna: forza e coraggio me li sono dovuti prendere da sola.
Quali sono le sue passioni oltre alla fotografia di insegne antiche?
Amo leggere e scrivere, il mare e la cartoleria, con tutto il mondo di penne, stilografiche, inchiostri, adesivi, nastri colorati e carte dai vari spessori. E mangiare.
Anche il suo aspetto rimanda un po’ al passato, a quelle donne di un tempo, dal viso importante, i lunghi capelli morbidi e gli occhi un po’ abbassati quasi per pudore, timidezza e riservatezza, dalla bellezza particolare e un po’ mistica. Cosa vuol dire essere donna oggi, cosa vede di diverso nel confronto con sua madre?
Essere donna so quello che vuol dire per me, non so se sia «essere donna oggi»: per me è non smettere mai di credere di poter essere felice, di avere sempre un nuovo mare da scoprire. Questa illusione di avere davanti a me tutte le possibilità, è il regalo del cuore di mia madre. Il suo insegnamento più bello è in fondo la mia ricchezza vera.
Continuerà a fotografare insegne antiche o ha già pensato ad un altro modo per rapportarsi al suo essere bambina, fanciulla, adolescente, creatura di un piccolo mondo antico?
Tutta la mia vita è un rapportarmi alla bambina che metteva da parte i cataloghi dei giocattoli per Natale, da settembre. La vedo e la porto in ogni cosa che faccio. Le insegne, continuerò per sempre a raccoglierle. Insieme a lei.












