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  • evaromoli
  • 4 mar
  • Tempo di lettura: 1 min

Aggiornamento: 17 mar




Lo senti il profumo del finocchio?

L’ho raccolto d’estate. In un altro mare.

Nel nostro mare, mi dicevi sempre che su quella discesa, al tramonto salita, era perfetto il finocchio e andava raccolto. Meglio di mattina.

Lo raccoglievo scendendo in spiaggia e lo mettevo nella busta del pane. La sera lo lasciavo sul terrazzo e la mattina lo controllavo. Quando era secco di sole e pronto, lo preparavo e con le dita facevo cadere tutti i semi su un canovaccio pulito. Alla fine dell’estate avevo il mio piccolo tesoro. Dentro la scatolina riciclata degli omogeneizzati della signora di sotto. Quella con i figli sempre urlanti e col pannolino in vista: te li ricordi che avevano sempre le bolle rosse e tu la tranquillizzavi?

A volte anche tre scatoline.

Tu mi guardavi da sotto gli occhiali, leggendo il giornale. Ridevi forse, di quella piccola fissazione che mi avevi trasmesso.

Attraversare la campagna senza rimanerne indifferente.




 
 
 
  • evaromoli
  • 4 mar
  • Tempo di lettura: 2 min

Aggiornamento: 17 mar




Da giugno a settembre le mattonelle rettangolari blu si infuocavano subito. Bisognava sceglierla con cura l’ora per uscire fuori scalza senza bruciarmi i piedi. Ma poi col tempo ho

imparato. Era solo un momento: dallo scalino della cucina e poi qualche salto veloce e i piedi si abituavano. E allora il tempo era solo uno spazio dilatato tra un gioco e l’altro. Fino a quasi sera, le guance rosse, il collo sudato, i piedi liberi. Cenare sulla terrazza era ogni volta una festa.

Mi sembrava di continuare a giocare.


Lì vedevo sempre le rondini e mi sembravano anche belle, da sotto.

Poi ne ho vista una accoccolata sul davanzale, una volta, ed è stato terribile. La prima enorme disillusione: le rondini da vicino fanno paura. Ma è comprensibile : sono nate per volare, mica per stare sui terrazzi a passeggiare. Non devono rendere conto di come sono. Devono arrivare e volare libere, questa è la loro bellezza.


Quella sera, dopo il lavoro, mio padre si fissò che voleva salvarla, la mise in una scatola di scarpe, con l’ovatta dentro e i buchi sopra. Era convinto di salvare l’intero creato, salvando quel volatile. Sperava che prendermene cura mi avrebbe aiutato a crescere. Si sbagliava. Io non feci nulla per partecipare a quel rituale di bontà e non me ne pentii mai. Mi sentivo un poco cattiva, perché incapace di aiutare un piccolo animaletto, ma poi pensavo che mai nessuna rondine avrebbe fatto lo stesso con me. E lasciai mio padre a girare per il terrazzo per scegliere l’angolo perfetto (sole ombra no correntine d’aria ).


Per una settimana non sono più uscita a giocare per la paura che spiccasse il volo mentre io ero lì.

Un giorno credo abbia preso il volo. Dal quinto piano.

Spero verso l’alto.


 
 
 
  • evaromoli
  • 4 mar
  • Tempo di lettura: 2 min

Aggiornamento: 17 mar




L’odore della sfoglia per la pasta portata ad asciugare.

Il profumo dei fiori di finocchio tra le patate e l’olio, nella teglia da portare giù al forno davanti casa.

L’odore della dose per la torta, che prendevo da zi’ Giggi, nella cartina rettangolare ben chiusa nella mano.

La puzza della varechina, che andavo a comprare qua sotto, con la bottiglia di plastica tra indice e medio e i soldi spicci nell’altra mano, per il gelato.

Il profumo della zuppa di lumache, la maggiorana (la persa) e il sughetto di pomodoro. Il profumo della saponetta Palmolive rosa sulla tua pelle. Il profumo del tuo pane, che aspettavo fuori dal forno.

L’odore del latte coi biscotti che mi costringevi a mangiare ogni mattina, con la finta dolcezza del cucchiaio. Un pastone terribile. La colonia nei tuoi capelli grigi, che ti pettinavi ogni mattina e raccoglievi dentro trecce profumate, con un’arte che vorrei raccogliere. A modo mio.

Il dolce delle pizze fritte dolci, che friggevi per farmi felice.

Il rosso del sugo che bolliva sul fuoco.

Il nero del tuo borsellino, tenuto gelosamente nel primo cassetto.

I miei ricordi di te sono pieni di colori e di profumi. Non carezze. Non favole. Non ferri per fare maglioni colorati. Con te c’era sempre qualcosa da fare, da pulire, da cucinare, da lavare, da pettinare. Il tuo voler bene andava colto nelle tue mani sempre indaffarate a fare. Per gli altri.

Eri una nonna che si perdeva tra le stanze della casa, ma c’era sempre. Cucinavi sempre di più, perché «non si sa mai».


Mi hai lasciato più di quanto avresti pensato.


Sono felice di tenere vivo il pensiero di te. Con me.

Nei miei capelli. Nelle mie mani indaffarate. Nelle ricette raccolte a voce e scritte a mano.



 
 
 

Parole mie

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