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  • evaromoli
  • 4 mar
  • Tempo di lettura: 2 min

Aggiornamento: 17 mar




Sopra l’isola a forma di farfalla, il buio della sera scende come un mantello nero scurissimo. Per strada niente luci e quando arriva la notte, quelle piccole e rade lucine del porto, bianche nelle taverne, gialle dietro le finestre delle case, rosse sugli alberi delle barche, non bastano a nascondere le stelle, che ti sembra di toccarle. Mentre ti aspetto, approfitto per asciugare i capelli, almeno un po’.

Davanti alla pensione Spiros ha lasciato una sedia impagliata, che rimarrà qui tutta la notte, fino al nostro ritorno. Ti aspetto qui. Fai presto! Per arrivare al ristorante dobbiamo attraversare tutta l’isola, nella parte centrale, quella in mezzo alle ali di terra; ci hanno detto che non possiamo perderci, perché di strada ce n’è una sola, è bianca e quindi decidiamo di non portare nemmeno la cartina, con gli scarabocchi fatti nei giorni scorsi. Per non scordarci nulla. Sarebbe tutto perfetto, a parte i moscerini negli occhi, i nodi nei capelli per il vento che non si placa, ma aumenta, a parte i piedi che non so dove appoggiare, su quel motorino mezzo rotto, con la polvere della strada che si appiccica sulla pelle delle gambe. Spiros ci ha detto che dall’altra parte il vento non c’è. Io qui non ci capisco più nulla. Il vento, come il sole e la luna, mi sembrano stare ovunque. Dalla mattina alla sera. Il ristorante è sulla spiaggia di una piccola caletta; per fortuna la strada bianca ci accompagna lì: le indicazioni erano giuste. I tavoli sono talmente sul mare, che per cenare ci siamo tolti le scarpe, ma non per scelta romantica, proprio per non bagnarle. Con la tua fissazione di prendere sempre la grigliata mista, per fare l’esagerato ed abbondare a tavola, mi hai costretto a dare la caccia alle spine per un’ora, su quel tavolo senza luce, che non si vede niente. Ma perché devo prendere la grigliata mista, se io voglio mangiare una cosa specifica? La grigliata mista la prendi se non hai le idee chiare, se vuoi mangiare un po’ di tutto. È per quelli che a cena fuori dicono (e li odio) «antipastino per tutti?», ma pensa per te! Io al ristorante voglio quello che mi va e lo voglio servito sul piatto mio, non deve mica essere una guerra a chi si accaparra il pezzo meglio. Insomma, alla fine il polipo alla piastra, che era l’unica cosa che volevo, l’ho mangiato freddo e indurito, perché era sotto a tutta quella montagna di pesci.


Però ti amavo tanto.


 
 
 
  • evaromoli
  • 4 mar
  • Tempo di lettura: 2 min

Aggiornamento: 17 mar




Glielo dici tu al cielo e alla stella che eravamo veramente noi? Noi due e non altri due, due qualsiasi. Con una camicia magari a righe lui e con una felpa grigia con la zip lei.

Invece no, eravamo proprio noi. Coi nostri vestiti. Il passo veloce di chi sa dove andare e sa farlo da solo, seguendo le geometrie delle strade.


Ma glielo devi spiegare bene. Devi metterti seduto e spiegarglielo, che eravamo noi e che era per poco quasi estate e che non faceva più freddo e noi non dovevamo nascondere corpi e carezze dentro ai cappotti, le teste al caldo nei cappelli. Se non ti capiscono, tu ricomincia da capo. Ricomincia dall’inverno e arriva all’estate. Soffermati nei particolari delle stagioni e dei giorni, che non scordi, ma fai loro capire che non ti pesano. Fai capire che non ti aspetti nulla e che quello che vuoi lo prendi con le tue mani adesso, che non ti curi se si sporcano, perché sai come lavarle o tenerle anche sporche. Fai capire che lo sai, sii convincente, spiegalo, che se arriva l’estate in realtà è la luce che se ne va. Minuto dopo minuto. Spiegati bene, usa tutte le parole e gli aggettivi che conosci, trovane di nuovi, se serve. Non farti illudere dalla stella e dal cielo, dal fatto che loro da lassù pensano di vedere meglio tutto. Che pensano di rendere bello tutto.


Diglielo tu che eravamo noi sulla terra piatta e dura e che non servono più parole.

Che le parole ci confondono e siamo bravi ad usarle per spiegare, per giustificare, per mettere in ordine i fatti, i torti e le ragioni, ma poi arriva un momento che ci stanchiamo semplicemente di usarle.


E quando ti accorgi che non servono più, allora puoi guardare la stella e il cielo sopra di te, puoi contare sui tuoi piedi e sulle tue mani. Puoi ascoltare la tua musica, senza bisogno di parlare.


 
 
 
  • evaromoli
  • 4 mar
  • Tempo di lettura: 1 min

Aggiornamento: 17 mar




Mi piacciono anche le mercerie.


Quando ero piccola qui vicino ce ne erano un paio. Ci passavo a volte il pomeriggio, con la scusa di comprare gomitoli di lana oppure un rocchetto di filo per mamma. Periodicamente negli anni e ciclicamente mi sono buttata nel ricamo, nel rammendo, nel lavoro ai ferri, nell’uncinetto. Ogni volta procurandomi tutto il necessario; da vera professionista. Oltre ai lavori in sé, amavo quel rituale del rifornimento in merceria. Tutte le cose ordinate con cura, sempre ascoltata con la massima attenzione dalla commessa, che ai miei occhi era una professionista vera. Sapeva tutto e di tutto. In poco tempo ti diceva quanti etti di lana ci volevano per qualsiasi cosa e subito li traduceva in gomitoli, faceva il prezzo con la matita mai appuntita sul bordo del foglio di giornale, metteva tutto nella bustina di carta sottile e con lire 4 mila e 800 andavo via felice. Una volta una signora contrattò davanti a me il necessario per un lavoro (filo aghi cordonetto fodera bottoni) e dopo 30 minuti di discussioni e scambio di pareri e cambiamenti di idea e movimenti perfetti col metro di legno e il gesso per misurare la fodera, se ne andò spendendo lire 3 mila e 2 cento. Ci rimasi male.


 
 
 

Parole mie

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